The World is My Colon

La mattina del'11 agosto 2003 mi sono svegliato mézzo di sudore dopo aver fatto l'ennesimo sogno orrendo. Da tempo passavo notti a perdere aerei o treni per fuggire da pericoli incomprensibili in luoghi sconosciuti, a correre cascando nel tentativo di arrampicarmi su montagne di sabbia che scomparivano sotto i miei passi, ad aggirarmi nudo in case altrui deserte dove le porte non potevano esser chiuse, o a nascondermi da malintenzionati senza volto o litigare urlando senza emettere suono. 

La notte di domenica 10 agosto era stata diversa: ero morto. Morto nell'esplosione di un edificio. Non mi ero salvato svegliandomi per scampare all'imminente pericolo, quella notte ero esploso con un bel botto. Ero proprio morto. 

Sudare d'agosto a New York non e difficile, anzi. Ma il 10 era una bellissima giornata, insolitamente ventilata, quasi come l'11 di settembre di due anni prima. Era un sudore diverso, frutto di febbre e lancinanti fitte al basso ventre. Insopportabile. Il termometro esterno segnava quanto quello interiore: 39 gradi. Non rari per fuori, ma molto per dentro. Mai avuto la febbre alta in vita mia. Il dolore sale verso la testa che mi scoppia. Vicino a casa mia c'è il Beth Israel Hospital. Mi ci avvio velocemente.

Dopo una breve attesa, la tipa all'accettazione mi chiede burocraticamente "name, address, and social security number". Per puro case ho nel portafoglio la tessera della Rutgers University dove avevo studiato 11 anni prima. Scolorito ma leggible c'era un numero. "Sorry, it's no longer valid", eppure non c'è la data di scadenza mi dico, ma non insisto. "Do you have an insurance?". Ora sto fresco, "I'm Italian, I don't have it with me at the moment". La tipa, senza neanche guardarmi in faccia, mi dice "That's OK, you can bring it later. Have a seat".

I pronti soccorsi son mal frequentati per definizione: bambini che piangono, vecchi immobili, donne mute, teste, braccia e gambe rotte. Quando il malanno è visibile si è autorizzati a cerchiare la faccina che piange, se, come nel mio caso, non si manifesta altro che non sia una fronte sudata, tocca cerchiare la faccia di mezzo. Tutti ti passano avanti. Ma proprio tutti. Arrivato alle 8 di mattina, entro alle 16. 

Per ingannare quella che sarebbe stata un'attesa infinita, leggo tutti gli avvisi possibili immaginabili affissi in giro incluso il "New York Sate Patient Bill of Rights". Altro che storie, 19 diritti uno meglio dell'altro! Evito di metterli alla prova con la ricerca di un interprete per farmi spiegare cosa mi può aspettare, avrebbero dovuto procurarmelo visto che "must" era scritto tutto maiuscolo. Mi soffermo però sull'articolo 2 "you have the right to receive treatment without discrimination as to race, color, religion, sex, national origin, disability, sexual orientation, source of payment, or age". Ricordandomi orribili storie di malati lasciati per strada perché senza carta di credito, son contento d'esser fuori da un articolo della stampa italiana.

Finita l'attesa fuori inizia quella dentro. L'astanteria risulta meno squallida della sala d'attesa solo perché vista in decine di film e telefilm - a New York si è in un déjà-vu permanente dal sapore cinematografico - ma è sovraffollata e quasi nessuno parla inglese come prima lingua, forse neanche come seconda. La febbre viene confermata ma in fahrenheit, i dolori vengono leniti con delle pasticche. Analisi del sangue, urine e radiografia fatti in un crescendo di passaggi di consegne tra infermieri, anche questi raramente madre lingua. Per la radiografia altra attesa. Nel frattempo offro le mie competenze linguistiche per facilitare la comunicazione con qualche vecchietto latino-americano che per sua fortuna non ha niente di grave. Fatta la radiografia si rompe la macchina per lo sviluppo delle lastre.

"The technicians will be in tomorrow morning, you better go home now. We will call you if necessary". Vado a casa. Non mangio. Svengo a letto. Il telefono squilla alle 6 del mattino "Mr. Perduca we have your results, could you please hurry? Don't eat anything". Le radiografie non dicevano nulla ma le analisi del sangue si, occorreva quindi una TAC. Altra interminabile attesa, questa volta al secondo piano, dove si fanno le CT scan. Tutto un'altro ambiente, dove firmo quintali di consensi informati che fanno scoprire che una TAC ha talmente tanti effetti collaterali possibili che quasi quasi ci sarebbe da tornare a casa doloranti senza voler sapere di cosa si soffra.

Fatta la prima TAC della mia vita, e senza controindicazioni, riscendo all'Emergency Room in attesa dei risultati. C'è meno gente. Dopo un'oretta arriva un giovane dottore che mi dice "Hello, Mr. Perduca, my name is David Schwartz. How are you feeling? By the way, are you sure you're not Jewish?" Come si risponde a una domanda del genere? "Well no. Or, I don't know. Why?". Secondo il dottor Schwartz il mio colon aveva tutti i sintomi del 35enne ashkenazita. Era corrugato e, in virtù di un'alimentazione scorretta, s'era infiammato. La mia diverticolosi, di cui non conoscevo l'esistenza neanche terminologicamente, era diventata una diverticolite. Devo esser trasferito d'urgenza al quarto piano: chirurgia. Mi ordinano totale astensione da cibo e liquidi, m'infilano una flebo di soluzione salina e antibiotici e rincarano la dose con almeno tre compresse al dì. C'è il rischio della perforazione del colon, dicono.

Sentirsi chiedere se si è ebrei, seppur da un medico di origine ebraiche e in un ospedale che si chiama Beth Israel, fa comunque venire i brividi. Il pensiero che qualcuno posse esser qualificato per le sue ascendenze porta alla memoria alcuni tra i peggiori incubi dell'umanità. Sicuramente il dottor Schwartz lo chiedeva a fini statistici, ma se invece che Schwartz si fosse chiamato Schmidt, e se invece dell'agosto 2003 fosse stato l'agosto di 70 anni prima, "Sind Sie Jude?" non sarebbe stata una domanda come un'altra. Certo pur sempre di "banali" statistiche si sarebbe trattato, ma gli organi non sarebbero stati asportati per fini terapeutici.

"Zsidó!" era l'espressione di peculiare disapprovazione che mia nonna paterna pronunciava ogni qual volta qualcuno di origine ebraica venisse rammentato tra le recenti letture o nelle chiacchiere famigliari o apparisse in TV. L'ungherese è una delle lingue più per conto suo di tutte le altre, "zsidó" (si pronuncia jido), come si può facilmente indovinare, vuol dire "giudeo". Provate a ripeterlo a voce alta con tono esclamativo e sentirete come può suonare intimidatorio.

Mia nonna era ungherese da parte di madre e di origini sveve da parte di padre. Era nata nel 1914 a Pozsony, Preßburg durante l'Impero austro-ungarico, oggi Bratislava. Suo padre, Oskar Heim, era uno dei pochi farmacisti della città, lavorava in una Apotheke di proprietà, possedeva una palazzina di sei piani e auto straniere da esibire per andare alla messa la domenica. Sua moglie Ilona Hasz era luterana. La media borghesia mitteleuropea ha sempre avuto un rapporto piuttosto complesso coi suoi pari d'origine ebraica. Nella parte ungarofona dell'Impero austro-ungarico chi aveva origini ebraiche, tra l'altro spesso senza alcuna pratica religiosa di riferimento, aveva cognomi in tedesco. A cavallo tra il XIX e il XX secolo quasi un decimo degli ungheresi era di origine ebraica. 

Tanto Heim quanto Hasz hanno echi e sapori ebraici, anzi, sapori ashkenaziti (in Yiddish, la koinè degli ebrei dell'Europa orientale, Ashkenaz vuol dire Germania cioè "Oriente", mentre Sefarad vuol dire "Spagna" cioè "Occidente"); il mio colon era una spia di pericolose intolleranze ereditate.

La degenza al Beth Israel durò due giorni in ER e tre notti in reparto. Mentre le flebo mi nutrivano, le simpatiche infermiere caraibiche m'inumidivano la lingua con cotton fioc umettati con chissà cosa per non farmi inaridire la lingua. Alice mi portava notizie e leggeva i giornali. Se non fosse stato per il mega blackout che spense New York per 24 ore, fecendo immediatamente pensare a un attacco terroristico, avrei dovuto scontare ben sette giorni di privazioni prescritte dal dottor Schwartz. Una settimana dopo mi arrivò, prima di una lunga serie, una lettera che m'informava che il mio colon era definitivamente fuori pericolo e che, pur rateizzaibili, dovevo ben 15.800 dollari al Beth Israel. Girai il tutto all'assicurazione e, non senza problemi, negli anni tutto si risolse.

Prima di salutarmi, sempre convinto che gli avessi mentito alla domanda sulle origini del mio colon, il dottor Schwartz mi dette una lista di alimenti da evitare: quelli con fibre, quelli piccanti, quelli con semi o grani, le verdure a foglia lunga, i vini bianchi e - vero dramma - il caffè. Uscito dall'ospedale, dove oltre ai 15.800 dollari avevo lasciato quasi cinque chili, mi ritrovai in una New York in festa. Il blackout aveva imposto a tutti i ristoranti e rivendite alimentari di sbarazzarsi di tutto quel che deperiva perché i frigoriferi non funzionavano. Manhattan era una tavola imbandita, per pochi dollari si potevano gustare brunch, pranzi o cene eccellenti facendo amicizia con decine di sconosciuti che, appreso dal sindaco Bloomberg che il calo dell'energia era frutto dell'incuria della rete elettrica e non degli accoliti di Bin Laden, festeggiavano lo scampato pericolo. Malgrado l'aria condizionata non potesse più funzionare, non faceva più neanche caldo! Tutti brindavano, mangiavano e si godevano la novità delle cene al lume di candela sui marciapiedi. Capii Tantalo.

Una settimana dopo aver lasciato il Beth Israel, passando per Peter Stuyvesant Square Park sulla via d'una visita di controllo, sul mio Palm leggo che Sergio Viera de Mello, rappresentante di Kofi Annan in Iraq, è morto nell'esplosione dell'Hotel Canal di Bagdad. Un'esplosione! Mi viene da piangere, non per un ritorno di dolori, che ancor'oggi mi prendono quando passo vicino a quell'ospedale, quanto per la notizia. De Mello era uno di quei miti per chi, come me, spera, o sperava, di poter un giorno rappresentare l'ONU in una zona di conflitto o in una parte del mondo in transizione verso un futuro migliore. 

Quando le Nazioni unite nominavano qualcuno come il brasiliano De Mello, o l'italiano Giandomenico Picco o più recentemente il giordano Zaid al-Hussein, dal fare snob e con indubbie capacità negoziali e una chiara visione degli obiettivi da perseguire, la chiamata al servizio dell'umanità riusciva a tranquillizzare i pasti più indigesti o le notti più travagliate.

De Mello Parlava tutte le lingue del mondo, era di modi e convinzioni civili, elegante e affascinante. Piansi. Quella maledetta ed evitabile guerra in Iraq non era finita malgrado il "mission accomplished" pronunciato da George W. Bush sulla USS Abraham Lincoln il primo maggio del 2003. L'escalation verso l'attacco a Bagdad - manco fosse un incubo - l'avevo vissuto nei corridoi del Palazzo di Vetro parlando con diplomatici, ONG e giornalisti nel tentativo di promuovere il piano di Marco Pannella di mandare Saddam Hussein in esilio e Michel Rocard a prendere il suo posto per una transizione verso un Iraq libero. Scansando le panchine mal frequentate del Peter Stuyvesant Square Park mi rendo conto di aver sognato la morte di de Mello. Anzi, d'aver sognato di morire con lui. Il vaticinio segnalava l'etruschità delle mia interiora. Forse perché anche gli etruschi erano un popolo per conto loro, in ungherese etrusco si dice etruszk. Italiano si dice olasz.

Rientrato in Italia a settembre, andai dal dottore di Firenze che suggerì un regime alimentare che consentiva alcuni dei cibi prescritti da Schwartz ma ne sconsigliava categoricamente altri. Per non sembrare anti-semita né scortese nei confronti del nuovo medico di famiglia, per la stagione autunno-inverno del 2003/4 mangiai mezze maniche all'olio senza sale e insalata belga scondita. Non mi convertii mail al tè, concedendomi la dose minima giornaliera di un caffè della moca al mattino e uno del bar durante il giorno

Da allora ho scoperto che un'ampia fetta della popolazione di qualunque origine, mia madre compresa, ha problemi di diverticoli. Quando lo stress accompagna, o causa, una cattiva alimentazione il colon s'infiamma. C'è chi se la cava con una colite, magari spastica, chi invece sviluppa una diverticolite. Chi passa per una colonscopia cerca di evitarne d'ulteriori, ci si impegna quindi a mangiare meglio e bere tantissima acqua, allentare lo stress e, se proprio non ci si riesce, ci si rivolge al miglior amico dei diverticoli il Normix e tutto s'aggiusta. Almeno per un po'.

Antibiotici a parte, iniziai ad affrontare lo stress con la pratica dello yoga, almeno per quanto possibile. Dall'ashtanga al vinyasa, passando per un paio di sessioni di kundalini e bikram mi torcevo respirando. Una sessione di yoga fa pensare. C'è sicuramente anche chi riesce a meditare, io no. Chi riesce a esser presente mentalmente e fisicamente negli allungamenti delle asana (pose) e nella costanza del pranayama (respirazione) arriva a meditare completando il "giogo" dell'antica disciplina indiana. Malgrado questa mia incompletezza, lo yoga m'ha aiutato a incamminarmi verso un forse meno esotico "mens sana in corpore sano". 

Lo stress è calato, anche perché fortunatamente non ho più avuto anni di lunghi viaggi concentrati in poche settimane come in quel dannato 2003, il fisico s'è riarmonizzato, dal peso forma di 76 ero arrivato a pesare 91 chili! e lo stomaco, e il colon, si sono progressivamente abituati a nuovi regimi alimentari che dal 2009 mi hanno fatto tornare a escludere totalmente gli animali.

Dieci anni dopo lo scampato pericolo, parlando con un amico che l'aveva appena fatto, decisi di inviare un flacone di saliva al centro analisi americano 23andme perché mi analizzassero, sempre rigorosamente a fini statistici, il DNA. Una causa davanti alla Food and Drug Administration intentata dallo scopritore di un gene che causa il tumore alla mammella ha bloccato una serie di analisi, ivi comprese quelle relative alla possibilità di sviluppare Parkinson o Alzheimer, da allora 23andme incamera ed elabora dati, chiedendo quintali di informazioni a chi partecipa volontariamente al progetto di mappatura genetica. Come contentino fornisce traccia delle transumanze degli avi a partire dalla fine del 1600. 

Lo storico delle scorrazzate del mio corredo genetico racconta che sono italiano per un terzo e che, tra i miscugli del rimanente 70%, oltre il sei è ashkenazita. La nonna Elena Heim, cioè Ilona o Ilonka, ma che per tutti era conosciuta col soprannome vezzeggiativo di Mädi che si dava alle figlie uniche nell'Impero austroungarico oltre 100 anni fa (da Madchen, ragazzina in tedesco) era già morta da tempo quando arrivarono i risultati dalla California, sai che faccia avrebbe fatto nello scoprire che per il 6% ero zsidó?

Qualche anno dopo regalai il test a mio fratello per una verifica. Non l'ha ancora usato…

Negli anni, la mia vita è comunque tornata a esser stressante, lo yoga è un ricordo dei tempi dell'America, anche se per un paio d'anni, prima a Villa Pamphilij poi sul tetto del Partito Radicale in Via di Torre Argentina, ho continuato a farlo le mattine d'estate con amici e compagni, ma l'attenzione a quel che mangio è rimasta e non solo per problemi di irritazioni interiori. 

Oggi, son sempre più convinto che "The world is my colon". A differenza dell'ostrica falstaffiana, il colon non è un baule colmo di tesori, anzi! contiene scarti delle nostre ingestioni frutto di abitudini e costrutti socio-economico-culturali insostenibili e non solo per l'organismo umano. Occorre star attenti a ciò che mangiamo, perché il cibo è l'ultimo anello di un lungo processo che avanza incurante delle enormi e quasi incurabili infiammazioni che causa.

Per il momento, di mondi, come di colon, ne abbiamo uno solo. Dobbiamo preservarlo, per quanto possibile, da ciò che lo irrita perché potrebbe perforarsi o scoppiare.

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