Digiuni, scioperi della fame e CRISPR Snack

Prima bozza
Una notte di mezza estate nei primi anni Duemila, con Marco Cappato fummo invitati a cena nel sottotetto di Marco Pannella non lontano da Fontana di Trevi per svuotargli il frigo perché era nuovamente in sciopero della fame.
Non ricordo di quale iniziativa si trattasse, né quale anno fosse, ricordo che facemmo fuori un chilo abbondante di tortelli in brodo fumante, affettati, insaccati, formaggi freschi e stagionati con qualche contorno riscaldato. Pannella era una buona forchetta e si approvvigionava da un norcino sotto casa. Tutto era molto saporito, la qualità pareggiava la quantità.
Negli anni la cucina di Pannella in via della Panetteria era diventata uno dei suoi uffici e “luogo di rappresentanza” dove veniva ricevuto chiunque dal postino a un capo partito. Quella sera d’un afoso luglio di tanti anni fa, dopo aver mangiato a quattro palmenti tutto quello che rischiava d’andare sprecato, partì la solita discussione su tutto lo scibile umano e politico.
A un certo punto, dopo che il suo collegio medico gli aveva intimato telefonicamente per l’ennesima volta di smettere - si trattava di sciopero della fame e della sete - perché non voleva essere complice di complicazioni permanenti, gli dissi che, visto che ormai non scriveva più documenti o articoli politici, sarebbe stato altrettanto politicamente rilevante pubblicare le sue cartelle cliniche con il fine di documentare come il suo “dare corpo” non fosse giusto uno slogan propagandistico ma un fatto. Disse che fino a un certo punto qualcuno le aveva conservate ma poi chissà.
Pannella e la tradizione politica radicale nonviolenta si rifanno esplicitamente a Mohandas Karamchand Gandhi il primo a traslare come strumento di lotta politica la pratica religiosa e tradizionale del digiuno. Il punto di contatto tra la nonviolenza di Gandhi e quella di Pannella è l’assenza del ricatto mentre è sempre presente quella della richiesta di un’assunzione di responsabilità, in primis da parte di chi digiuna e, in seconda battuta, da parte di chi è il destinatario dell’azione. Pannella era solito ricordare che la durata fosse “la forma delle cose”, purtroppo, col tempo, la potenza della sua nonviolenza iniziò a spuntarsi forse anche per una sorta di coazione a ripetere automaticamente l’annuncio della lotta nonviolenta. Negli anni i digiuni divennero scioperi della fame arrivando, sempre più spesso, ad aggravarsi in scioperi della fame e della sete.
I pensiero e il metodo della nonviolenza politica gandhian furono introdotti in Italia da Aldo Capitini, fondatore del Movimento Nonviolento, come ebbe modo di ricordare tempo fa Mao Valpiana, uno dei proseguitori dell’esperienza del Movimento Nonviolento in una discussione online relativa a uno sciopero della sete del leader radicale, Capitini arrivò a dire: “Quando tra il popolo più umile, e tanto importante dell’Italia, si arriverà a mettere il ritratto di Gandhi in chiesa, santo fra i santi, avremo finalmente quella riforma religiosa che l’Italia aspetta dal Millecento”. Come sappiamo, quanto auspicato da Capitini non s’è mai verificato ma l’unica altra immagine accanto a quelle di Padre Pio che abbia mai scorto in una cella dei quasi cento istituti di pena che ho visitato negli anni in cui ero in Parlamento è stata quella di Pannella. Certo le patrie galere non sono le chiese ma, a modo loro, sono spazi di spiritualità imposta.
Come ci racconta nella sua biografia Storia dei miei esperimenti con la verità, Gandhi è stato un uomo profondamente religioso: “Io credo la verità fondamentale di tutte le grandi religioni del mondo. Per me Dio è verità e amore, è etica e morale. Dio è coraggio. Dio è coscienza. Dio è persino l’ateismo dell’ateo. E’ un Dio personale per coloro che hanno bisogno della sua presenza personale. E’ incarnato per coloro che hanno bisogno del suo contatto. E’ la più pura essenza. E’ tutte le cose per tutti gli uomini. E’ in noi e tuttavia al di sopra e aldilà di noi. Il mio induismo non è settario. Esso include tutto ciò che io so essere il meglio dell’islamismo, del cristianesimo, del buddismo”. Pannella, come si sa, era anticlericale, ma molto attento alla religiosità ai sentimenti religiosi diceve d’esser credente in altro - e quell’altro era da scommettere che fosse il se stesso politico - per certi versi Pannella era molto attento alle regole, a quelle monastiche ancor prima di quelle dello Stato di Diritto. Se il digiuno per Gandhi era “la preghiera più pura” per pannella era uno degli strumento di lotta politica piú nobile, anche perché nobilitava corpo e spirito depurandoli.
Naturalmente non esiste un manuale del buon militante nonviolento, esiste però una consolidata prassi nonviolenta radicale - rigorosamente scritta senza trattino come voleva Marco Pannella - che pur non sistematicamente riattualizza gli insegnamenti, gli strumenti e gli esempi delle azioni politiche del Mahatma Gandhi fatta di non collaborazione, resistenza passiva, disobbedienza civile e digiuni. L’unica differenza sostanziale tra Gandhi e Pannella, e quindi forse consustanziale tra le due nonviolenze, è la pratica in prima persona e la “spontaneità” della Scelta. Poco dopo quella scorpacciata in soffitta con Pannella ci recammo a Tirana nel momento in cui l’opposizione socialista al governo di Sali Berisha aveva organizzato uno sciopero della fame di massa davanti alla sede del Governo. Nell’incontro con Edi Rama, all’epoca sindaco di Tirana e capo dell’opposizione, Pannella gli fece notare che sarebbe stato tutto molto più efficace se Edi Rama stesso avesse digiunato e se i suoi non fosser accampati sulla pubblica piazza ma separati dalla cittadinanza, e dai media internazionali, da un recinto che non li rendeva visibili. Esempio e trasparenza, due degli ingredienti base della nonviolenza pannelliana.
Per quel che attiene al rapporto individuo nutrimenti, almeno relativamente alla nonviolenza pannelliana, direi quanto segue:
i) Lo sciopero della fame è un'iniziativa che viene presa individualmente, che successivamente può divenire azione organizzata e coordinata, nei confronti delle istituzioni per chiedere loro di rispettare la propria legalità costituzionale oppure, in seconda battuta, per ottenere chiari impegni a favore del rientro da una situazione di patente violazione dello Stato di Diritto da parte di chi dovrebbe proteggerlo e affermarlo.
Si tratta di azioni a oltranza, cioè fino al "raggiungimento dell'obiettivo" (o comunque fino all'ottenimento di impegni puntuali e precisi - quindi non solo segnali di attenzione - che vadano nella direzione auspicata). Mentre Gandhi praticava i suoi scioperi della fame stando ignudo sul suo letto idratandosi con acqua, Pannella e i Radicali, oltre a privarsi realmente di energie derivanti dal cibo per donarle simbolicamente alle istituzioni, sono soliti cogliere l'occasione dello sciopero della fame per raddoppiare le proprie attività politiche in ogni luogo praticabile. Non essendo, come detto, lo sciopero della fame un ricatto che oppone la possibile morte di chi lo pratica alla vita dello Stato di Diritto, a differenza di quelli dei militanti repubblicani irlandesi di Bobby Sands, gli scioperanti assumono tre cappuccini (o spremute d'arancia) al dì, al fine di poter continuare a fare quello che normalmente fanno: politica.
ii) Negli ultimi 20 anni, Marco Pannella aveva aggravato i propri scioperi della fame col ricorso al ben più grave sciopero della sete - cioè alla privazione anche di qualsiasi tipo di idratazione. Gli scioperi della fame e della sete di Pannella son durati anche una settimana. Trattandosi di iniziative a "oltranza", nella stragrande maggioranza dei casi hanno ottenuto uno o parte degli obiettivi fissati spesso ottenendo, da posizioni extra-parlamentari, decisioni istituzionali mai accadute prima.
iii) Il digiuno è una forma individuale o organizzata di privazione di cibo per promuovere un dialogo - altro elemento costituente la nonviolenza politica. Il digiuno pretende il rispetto della legalità costituzionale o degli obblighi internazionali delle entità a cui viene rivolto. "Dona" le energie di chi lo pratica all'altro perché questi ne possa "trarre linfa" per fare quello che dove fare in virtù del proprio ufficio.
Il dialogo promosso col digiuno può comunque interessare istituzioni, organizzazioni, media, opinione pubblica per chiedere qualcosa che è concretamente possibile e/o probabile (per intenderci non per la "pace nel mondo") e trae spesso spunto da attività di altro tipo che vengono portate avanti, dagli stessi digiunatori o da altri, volte al raggiungimento del medesimo obiettivo.


Il digiuno, per definizione e prassi, ha una (s)cadenza temporale. Senza uno scopo di interesse pubblico conquistabile è una dieta.
In quarant’anni la nonviolenza radicale, accompagnati da attenzioni mediche e documentati pressoché in diretta da Radio Radicale, ha sbloccato, promosso, denunciato, mosso, convinto e creato dibattiti pubblici senza provocare un morto o un ricovero che non fosse quello di Pannella.
Il mio sciopero della fame più lungo è stato nell’estate del 2007 per chiedere che l’Assemblea generale dell’ONU votasse su una risoluzione per una moratoria universale della pena di morte. Per tre settimane sono andato avanti senza solidi e l’ho interrotto al termine di una manifestazione in Campo dei Fiori a Roma con una pinta di Guinness. Era un bellissima sera di settembre. Avevo perso una dozzina di chili.
Non mangiare volontariamente può essere uno strumento di convinta, perché consapevole, lotta politica, ma anche mangiare è un atto politico. Molto politico: la qualità e la quantità dei prodotti, la loro provenienza e il prezzo pagato per ottenerle implicano scelte, spesso inconsapevoli o assunte sovrappensiero, che hanno ripercussioni dirette e indirette sulla vita di miliardi di persone e sull’ambiente. A livello globale.
Tanto è politico il cibo che le Nazioni unite hanno creato un’organizzazione interamente ad esso dedicata la FAO (Food and Agriculture Organization) che, per l’appunto, ha sede a Roma. Di cibo parlano i funzionari dell’ONU, quelli dell’Unione europea, quelli dei ministeri quotidianamente nel tentativo di trovare il modo migliore per cancellare la “fame” dalla faccia della terra. Il prossimo obiettivo è quello di eradicarla a livello globale entro il 2030.
Nel 2017 l’Italia ha ospitato a Bergamo il G7 dell’argicoltura, nel salutare il documento finale l’allora ministro (bergamasco) Maurizio Martina dichiarò che “500 milioni di persone fuori dalla fame entro il 2030 attraverso impegni concreti dei 7 Paesi” era un obiettivo che il G7 agricoltura confermava “nel solco del G7 di Taormina e nella più ampia cornice Fame Zero dell'Onu. Il ruolo della cooperazione agricola sarà decisivo per raggiungere questo traguardo, perché la maggioranza delle persone che soffrono la fame vive in aree rurali. La fame è una questione prima di tutto agricola. Per questo abbiamo deciso di aumentare gli sforzi per favorire la produttività sostenibile in particolare in Africa, attraverso la condivisione di buone pratiche per aumentare la resilienza e accompagnare lo sviluppo delle comunità locali. Abbiamo affrontato anche il tema della difesa dei redditi degli agricoltori davanti alle crisi dovute al cambiamento climatico e a quelle economiche, affidando il mandato alla FAO per studiare azioni sul tema”.
La dichiarazione dell’ottobre 2017, come tutti i documenti di quel tipo, fu frutto di una lunga serie di compromessi, da una parte mancò la quantificazione gli impegni in risorse economiche e finanziarie per aiutare l'agricoltura dei paesi in via di sviluppo, dall'altra non ci si addentrò su quali fossero le "buone pratiche" da condividere visto che almeno due dei sette grandi (Usa e Canada) producono, usano ed esportano organismi geneticamente modificati. I diabolici OGM.
Martina, disse anche che “ci sono temi sui quali dovremo aumentare ancora gli sforzi, come la protezione dei suoli e la biodiversità, la maggiore trasparenza nella formazione del prezzo del cibo e la riduzione radicale dello spreco alimentare [...] Da Bergamo rilanciamo ancora la sfida per garantire davvero il diritto al cibo di ogni essere umano a qualunque latitudine”.
È chiaro che in chiusura di un evento internazionale il tono è sempre “su di giri”,ma se andiamo a leggere con calma cosa dice la dichiarazione di Bergamo, si capisce che dietro ai grandi proclami c'è poca roba e quella che c'è o è stata mal presentata agli americani o è lost in translation.
Mi spiego con un esempio segnalando questo passaggio Inserire e sostenere la transizione al modello agricolo biologico fra le strategie messe in campo dalle politiche agricole dei Paesi, per conciliare sostenibilità economica, ambientale e sociale e favorire un'economia circolare”. Mi pare piuttosto evidente che prendersi l'impegno di sfamare mezzo miliardo di persone (l'intera popolazione di tutta dell'Unione europea!) in 13 anni promuovendo le buone pratiche dell'agricoltura biologica equivale a mentire, sapendo di farlo, e a riaffermare "ricette" che piuttosto vuote proclami e che, se mai dovessero esser tradotte in pratica, sarebbero del tutto inefficaci.
Non ho niente contro i prodotti cosiddetti "biologici", tutto è biologico fino a quando non ci mangeremo la plastica, ma, ammesso e comunque non concesso, che si tratti realmente di prodotti al 100% senza alcun utilizzo di prodotti chimici, ritenere che l'intera Africa, tutto il sud-est asiatico o l'America latina possano vivere (non dico prosperare) con quel modello d'agricoltura la dice lunga sull'inadeguatezza dell'attuale classe dirigente di mezzo mondo chiamata al governo di certe questione. Siamo di fronte a politici, e anche molti tecnici al loro servizio o al servizio di se stessi, che raramente escono dai propri uffici e che quando girano il mondo lo fanno in "visite guidate" per motivi di sicurezza o magnificano la costruzioni di orti urbani in città o villaggi dove mancano acqua corrente e fogne.
L'Italia, uno dei leader mondiali dell'agroalimentare (di lusso), e non necessariamente tutto "bio" (i formaggi e affettati più pregiati son prodotti da ovini e suini nutriti a forza di mangimi OGM importati) e che sovvenziona le sue coltivazioni biologiche con sussidi pubblici nazionale e internazionali diretti e indiretti, oggi coltiva “a biologico” circa il 12 percento della propria superficie agricola (superficie che, alcuni sostengono, non esser necessariamente tutta dedicata a produrre "bio", ma di questo ne parliamo un'altra volta). Un percentuale significativa ma non una “buona pratica” potenzialmente strutturale.
Ecco, possibile che per sfamare 500 milioni di persone in qualche anno si pensi che una delle soluzioni più adatte sia investire per arrivare (chissà quando) a portare altri paesi a queste “vette” produttive? Ma poi, visti i costi al consumatore, il "bio" dei paesi poveri chi lo consumerebbe? Vogliamo promuovere un modello di sviluppo che sia sostenibile in quanto volto a rendere autosufficienti le economie dei paesi in via di sviluppo a forza di 10% di conversioni agricole?
Ma ipotizzando pure che il "bio" prenda piede pervasivamente nei paesi poveri o in via di sviluppo anche grazie alla cooperazione agricola e sussidi internazionali, quanto potrà essere redditizio un settore di mercato che abbisogna di complessi e costanti certificazioni che alla fine della filiera impattano sul prezzo in modo importante e che, mancando di conservanti, deve esser esportato verso mercati di prossimità, quindi economie non necessariamente ricche?
A queste domande la scienza dà risposte che purtroppo ancora non paiono altrettanto convincenti, o sonore, degli appelli, o minacce, dei sindacati di agricoltori - uno dei veri poteri forti delle democrazie occidentali (altro che Goldman Sachs!).
Eppure da qualche anno, grazie alle nuove tecniche di mutagenesi, o editing del genoma, il DNA di una pianta può esser corretto senza spostare geni tra organismi diversi (come per gli OGM) generando delle varianti di piante nello stesso modo in cui queste potrebbero accadere spontaneamente in natura. La stessa biodiversità deriva da mutazioni casuali indistinguibili a quelle che oggi possono essere generate con le ultime tecnologie dell’editing del genoma.
Tra le tecniche più diffuse, anche perché più precise e meno costose, c’è il Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats (CRISPR) traducibile in italiano con “brevi ripetizioni palindrome raggruppate e separate a intervalli regolari”. La sigla fa riferimento a una famiglia di segmenti di DNA contenenti brevi sequenze ripetute (di origine fagica o plasmidica) rinvenibili in batteri e archei. In particolare, le CRISPR sono presenti nel locus CRISPR insieme ad altri elementi genici sia nei batteri che negli archei.
La giornalista e biologa Anna Meldolesi, scherzando (ma non troppo) parla di un’era prima e dopo CRISPR - come ha segnalare che le possibilità di azione sul DNA sono radicalmente cambiate e che dagli sviluppi del 2012 non si tornerà indietro.
La modifica degli organismi vegetali era già possibile e attuata su larga scala su vegetali prodotti in modo industriale come mangimi o per l’abbigliamento, i famigerati OGM.
Il primo Organismo Geneticamente Modificato con le moderne biotecnologie fu ottenuto in California nel 1973 da Stanley Norman Cohen e Herbert Boyer che clonarono un gene di rana all'interno del batterio Escherichia coli dimostrando che era possibile trasferire materiale genetico da un organismo ad un altro tramite l'utilizzo di vettori plasmidici in grado di autoreplicarsi, abbattendo di fatto le barriere specie-specifiche.
Questi risultati ebbero un tale impatto da indurre la comunità scientifica ad autoimporre nel 1974 una moratoria internazionale sull'uso della tecnica del DNA ricombinante per valutare la nuova tecnologia e i suoi possibili rischi. L'anno successivo fu la conferenza di Asilomar, a Pacific Grove, California a concludere che gli esperimenti sul DNA ricombinante potessero procedere a patto che rispettassero severe linee guida, successivamente adottate dai National Institutes of Health (NIH) e accettate dalla comunità scientifica e che furono pubblicate nel 1976 e successivamente aggiornate, sono le direttive seguite ancora oggi dai laboratori che effettuano esperimenti di trasformazione genica.
Negli ultimi quarant’anni gli OGM sono passati dall’essere possibilità tecnologica a realtà industriale. Allo stesso tempo sono stati oggetto di campagne di mistificazione e demonizzazione che ne hanno fortemente depotenziato la ricerca e la loro possibile applicazione con paradossi per cui, persone o gruppi a favore di ricerche sulle cellule staminali embrionali, oppongono rotondi NO quando si parla del DNA delle piante.
Già un paio dopo la conferenza di Asilomar arrivarono i primi prodotti ad uso commerciale derivati da un OGM: la somatostatina (1977) e l'insulina (1978) - il farmaco biotecnologico più noto e utilizzato immesso in commercio nel 1981. L'insulina ha rivoluzionato l’economia dei farmaci aprendo il settore biotecnologico (precedentemente confinato nei laboratori di ricerca) all'industrializzazione incidendo profondamente sul processo della scoperta di nuove medicine e lo sviluppo di terapie non invasive. Contribuendo al benesseri di milioni di persone in tutto il mondo.
Dopo più di 30 anni dalla Conferenza di Asilomar, all'alba del XXI secolo, si conoscono molte delle potenzialità e dei limiti di questa tecnologia e, in molti casi, si dispone dei protocolli di gestione necessari a consentirne un’applicazione in sicurezza. In particolare il Protocollo di Cartagena, ratificato nel 2000, si pone come strumento internazionale per la protezione della biodiversità dai possibili rischi derivanti dalla diffusione dei prodotti delle nuove tecnologie.
Per secoli, il miglioramento dei raccolti è stato ottenuto con le tecnologie tradizionali di incroci e selezioni che hanno cambiato il patrimonio genetico delle piante. Le tecnologie innovative che oggi sono state sviluppate non son altro che il passo successivo per ottenere ulteriori miglioramenti indistinguibili con efficienza e precisione molto più elevate. Questi recenti metodi innovativi di miglioramento genetico saranno sempre più necessari per affrontare i nuovi scenari frutto dei cambiamenti climatici e si candidano a fornire strumenti concreti per sfamare tanta gente che oggi sopravvive con apporti proteici e calorici insufficienti.
L’agricoltura nutre il mondo. Il collasso dei sistemi alimentari è uno dei maggiori prodotti dei cambiamenti climatici. Il successo dell’agricoltura di domani ha bisogno di raccolti che siano in grado di meglio sopportare rapidi cambiamenti ambientali avversi, quali ad esempio l’estrema siccità che ha recentemente colpito l’Europa”. Questo brano è tratto da un documento sottoscritto da oltre 90 istituti di ricerca europei a un paio di mesi dalla sentenza della Corte europea di giustizia che il 25 luglio 2018 ha stabilito che le nuove tecniche di mutagenesi siano da considerarsi alla stregua di OGM e quindi da regolamentare con una direttiva europea adottata nel 2001 che consente la commercializzazione di organismi geneticamente modificati senza fornire un quadro normativo che, sulla base di evidenze scientifiche, possa esser aggiornato nella parte relativa alle forti limitazioni di produzione e impiego imposte in virtù del principio di precauzione. Quanti anni può durare una “misura cautelare” di questo tipo? Quanti studi che dimostrano la non pericolosità di un prodotto (o di un comportamento) sono necessari per rivedere le decisioni iniziali? Quante sperimentazioni potranno esser consentite per bilanciare la precauzione con le innovazioni del progresso tecno-scientifico?
Come abbiamo visto, una delle svolte più recenti relative alla biologia, anche delle piante, è il miglioramento genetico di precisione basato sull’editing dei genomi, “l’editing può adattare i raccolti a ciascuna area coltivata in base ai fattori ambientali specifici di quella regione, e può essere usato per migliorarne il valore nutrizionale e la digeribilità, nonché ridurre il contenuto di componenti anti-nutrizionali e allergeni e l’utilizzo di sostanze chimiche nelle coltivazioni”. Non lo dico io, lo affermano gli oltre 90 istituti di ricerca europea di cui sopra che il 24 ottobre 2018 hanno reso pubblico un documento frutto del coordinamento di decine di scienziati. Una delle micce che ha fatto prendere la tastiera agli scienziati è stata una merenda italiana con prodotti Made in Japan.
Ebbene sì, dopo anni di privazione di cibo per motivi politici - epici gli scioperi della fame e le marce di Natale contro “lo sterminio per fame e guerre” dei primi anni Ottanta di Marco Pannella, Emma Bonino e tutti i radicali - alcuni degli eredi di quella tradizione hanno deciso di consumare sulla pubblica piazza prodotti geneticamente editati autodenunciandosi alle autorità competenti perché quell’atto era passibili di sequestro in quanto coinvolgeva prodotti non destinati al consumo umano.

Il 18 settembre davanti alla Camera dei Deputati e il 4 ottobre 2018 all’entrata della Statale di Milano l’Associazione Luca Coscioni, assieme a scienziati e ricercatori, ha promosso la prima merenda italiana mai organizzata con prodotti editati per chiedere al Governo italiano di chiarire come avrebbe inteso adeguare la normativa nazionale a seguito della sentenza della Corte del Lussemburgo sulle tecnologie di mutagenesi. senza una risposta puntuale, la decisione della Corte del Lussemburgo svantaggerà i centri di ricerca pubblici italiani che vedranno marchiare come OGM piante con mutazioni simili a quelle spontanee e penalizzerà gravemente – e ulteriormente – l’agricoltura italiana sottraendo strumenti sicuri di innovazione e consolidando la necessità di importazione dall’estero di prodotti OGM come soia e mais, per la produzione di molte eccellenze del Made in Italy.


Il cuoco dell’insalata di riso vegana di Roma fui io, le arancine milanesi furono preparate da Cristiana Zerosi su ricetta della chef Paola Galloni. Oltre a Filomena Gallo, Segretario dell’Associazione Luca Coscioni, a Roma mangiarono allegramente Gennaro Ciliberto, Ordinario di Biologia Molecolare, Univ di Catanzaro “Magna Graecia”, Presidente della Federazione Italiana scienze della Vita (FISV) e Direttore Scientifico IRCCS Istituto Nazionale Tumori “Regina Elena” Roma; Mario Pezzotti, Ordinario di Genetica Agraria e Delegato alla Ricerca dell’Università di Verona, Presidente della Società di Genetica Agraria e di StartCup Veneto; Alessandro Vitale, della Società Italiana Biologia Vegetale; Giovanna Serino dell’Università di Roma La Sapienza e Max Beretta PhD, Team Breeder Coordinator, ISI Sementi S.p.A. A Milano fecero sparire in pochi minute le arancine anche Marco Cappato, Tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, Vittoria Brambilla, ricercatrice alla Statale e biotecnologa e il Professor Cesare Romano della Loyola Law School di Los Angeles. Sono ancora tutti vivi e lottano insieme a noi!
La regolamentazione molto restrittiva dei metodi innovativi di miglioramento genetico made in Italy, ma purtroppo anche Made in EU, ha molteplici conseguenze: gli ostacoli legislativi bloccheranno quell’innovazione in agricoltura che è basata sul miglioramento di precisione, minacciando fortemente il progresso continentale verso un’agricoltura sostenibile, la competitività globale delle varietà di raccolti europee e delle imprese che operano nel miglioramento genetico. L’impatto negativo sulla nostra società e la nostra economia potrebbe essere molto forte. Per recuperare il tempo, e la razionalità perduta, occorrono cambiamenti legislativi che usino la scienza come criterio principale per valutare ogni nuova varietà di piante.


Anche se recentemente non son più di questo avviso generalizzato, quando si ha a che fare coi Radicali ci si dovrebbe comportare come quella pubblicità di Carosello che diceva “a scatola chiusa compro solo Arrigoni!”: se i Radicali (oggi “certi Radicali”) che ieri facevano digiuni e scioperi della fame oggi mangiano riso crispato è probabile che, ancora una volta abbiano individuato la radice di un problema e si stiano organizzando per offrire delle soluzioni possibili, dopotutto quante volte avete visto gli alfieri dello SlowFood digiunare o praticare uno sciopero della fame?

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